“Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività” (DDAI) è la più recente etichetta diagnostica utilizzata per descrivere bambini che presentano problemi di attenzione, impulsività e iperattività. I bambini con DDAI rappresentano una popolazione che, secondo varie forme e gradi manifestano tali sintomi, in associazione con altre sindromi e in vari contesti (a casa e/o a scuola). Il DDAI è uno dei disturbi psichiatrici infantili più diagnosticati nei Paesi di area anglosassone, ma che non viene riconosciuto completamente nella pratica clinica italiana. Ci si propone qui di delineare gli aspetti introduttivi del DDAI: storia, sintomi primari, criteri diagnostici, modelli interpretativi, eziologia e aspetti evolutivi.

Fino al 1902 la documentazione sul DDAI è praticamente inesistente. In quell’anno un medico inglese, G. F. Still, pubblicò su Lancet qualche osservazione su un gruppo di bambini che presentavano “un deficit nel controllo morale… ed una eccessiva vivacità e distruttività” (Still, 1902).
All’inizio del secolo scorso i comportamenti distruttivi, iperattivi e impulsivi associati a disattenzione erano ancora attribuiti ad un carente sviluppo del controllo morale. Diversi autori negli anni Venti notarono che queste manifestazioni comportamentali erano legate ad una precedente “encefalite… legata ad una forte influenza”. Negli anni Trenta le ricerche arrivarono alla conclusione che i sintomi dell’iperattività e della disattenzione erano legati tra di loro, in modo piuttosto variabile a seconda dei casi. La spiegazione più ovvia fu la presenza di un Danno Cerebrale Minimo (Levin, 1938), sebbene non venne riconosciuta alcuna lesione specifica. Altri autori ipotizzarono che la spiegazione più plausibile fosse da ricercare, non in una lesione vera e propria, ma in una non ben precisata Disfunzione Cerebrale Minima causata da intossicazione da piombo (Byers & Lord, 1943), da traumi perinatali (Shirley, 1939) o da infezioni cerebrali (Meyers & Byers, 1952).

Nel 1952 comparve la prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) pubblicato dall’Associazione degli Psichiatri Americani il quale prevedeva due sole categorie dei disturbi psichiatrici infantili: la Schizofrenia e il Disturbo di Adattamento.
Solo nella seconda edizione del DSM (APA, 1968) si fece menzione del DDAI con l’etichetta diagnostica “Reazione Ipercinetica del Bambino”. La scelta di questo termine enfatizzava l’importanza dell’aspetto motorio a scapito di quello cognitivo. Il termine Ipercinesia deriva infatti dal greco “hyper” cioè eccessivo e “kinesis”, movimento, moto.
Tuttavia anche nel DSM-II (APA 1968) non venivano specificati i criteri per poter formulare una diagnosi, anche perché i primi DSM erano manuali descrittivi più che nosografici.

Il DSM-III (APA, 1980) rappresentò una vera e propria rivoluzione nella procedura clinica-diagnostica in quanto prevedeva un sistema di valutazione multiassiale con specifici criteri diagnostici per ogni disturbo; esso inoltre includeva un sistema diagnostico orientato in senso evolutivo, strutturato specificatamente per i disturbi dell’infanzia. Nel DSM-III, il termine diagnostico utilizzato per riferirsi al DDAI era “Disturbo da Deficit dell’Attenzione”. Tale cambiamento nosografico, da Sindrome Ipercinetica a Disturbo da Deficit dell’Attenzione (DDA), presupponeva un mutamento nella lettura della sindrome, a vantaggio degli aspetti cognitivi rispetto a quelli comportamentali. Tale mutamento fu reso possibile soprattutto dagli studi di Virginia Douglas (1972, 1979) la quale sottolineava la centralità dei deficit cognitivi rispetto a quelli motori, inquadrati come un epifenomeno dei primi.
Nel DSM-III (APA, 1980) venivano descritti due sottotipi di DDA: con o senza Iperattività. I sintomi previsti erano 16, suddivisi in tre categorie: disattenzione (5 sintomi), impulsività (6 sintomi) e iperattività (5 sintomi). Secondo tali criteri, il bambino, per essere diagnosticato con DDA, doveva presentare almeno tre sintomi di disattenzione e tre di impulsività; mentre se al DDA si associava l’Iperattività allora dovevano essere presenti almeno altri 2 sintomi.
Nel 1987 fu pubblicato il DSM-III-R, il quale rappresentò forse un arretramento rispetto alla precedente edizione in quanto furono eliminati i sottotipi e fu introdotta l’attuale etichetta Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI). Furono rimosse le tre categorie di sintomi a favore di un’unica lista di 14 comportamenti in cui disattenzione, impulsività e iperattività erano considerati di pari importanza per poter formulare una diagnosi di DDAI. In base al DSM-III-R (APA, 1987) era sufficiente che il bambino manifestasse almeno 8 sintomi in due contesti per almeno 6 mesi per ricevere una diagnosi di DDAI.

Le conseguenze di questi cambiamenti furono che il campione di soggetti con DDAI, secondo il DSM-III-R (1987), aumentò di circa il 26% rispetto a quelli diagnosticati seguendo il DSM-III (1980). Tale fenomeno fu evidente soprattutto tra i maschi, mentre le femmine con DDAI diminuire in quanto presentano maggiori problematiche attentive rispetto a quelle comportamentali (Lahey & Carlson, 1991).

Sintomi primari e criteri diagnostici. Secondo le stime dell’Associazione degli Psichiatri Americani il DDAI è presente tra la popolazione in età scolare in percentuali comprese tra il 3% e il 5%; con un rapporto maschi/femmine che va da 4:1 a 9:1 (APA, 1994).
Dalla pubblicazione della terza edizione riveduta del DSM (DSM-III-R, 1987), il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è diventata la sindrome infantile più studiata in tutto il mondo; si stima infatti che in quest’ultimo secolo siano stati pubblicati oltre 6000 tra articoli scientifici, capitoli e manuali. L’ultima descrizione nosografica del DDAI appartiene al DSM-IV (1994) che ha ripreso alcune tematiche del DSM-III (APA, 1980), tra cui la suddivisione dei sintomi in disattenzione, iperattività e impulsività, e la possibilità di individuare dei sottotipi.

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